tsunami_locandina_lightCara Daria,
mi è dispiaciuto di non essere presente a cena venerdì scorso e poter così proseguire un interessante colloquio con voi sull’incontro del Pavone.
Per quel che mi concerne, malgrado la mia scarsa esperienza in materia, mi sentirei di fare le seguenti osservazioni:
1. La relazione del Professor Shigeru Satoh, a parte la mia incapacità di comprendere il giapponese e la traduzione in parte carente, mi è parsa di grande interesse per una serie di motivi che provo a elencare:
a) Satoh ha mostrato in modo lucido l’enorme divario culturale in tema di come affrontare le catastrofi naturali tra Giappone e Italia. In Giappone anzitutto, se ho ben capito, la progettazione è anche preventiva all’evento. L’organismo che pone in atto gli interventi – una volta che la catastrofe si verifica – è una struttura composita ove concorrono lo Stato, l’ente locale (lui l’ha definito provincia) e la comunità locale. Mentre in Italia, specialmente nell’ultimo caso di L’Aquila, abbiamo assistito dell’aberrante intervento, quasi militaristico, organizzato verticalmente dalla protezione civile. Che non ha tenuto in nessun conto i bisogni della comunità locale.
b) Satoh ha ben chiarito che in certe situazioni non è possibile ipotizzare che il centro urbano, piccolo o grande che sia, colpito dall’evento, venga ricostruito nello stesso luogo ove l’evento si è verificato determinandone la distruzione. D’altra parte storicamente ciò è avvenuto più volte: Noto ne è un caso eclatante quanto positivo.
c) Ma Satoh ha chiaramente mostrato come, una volta identificato il nuovo sito, solitamente in altura e focalizzato possibilmente nei pressi di un punto focale preesistente – un tempio – gli abitanti vengano subito dotati di casette temporanee in legno. La cosa che mi è parsa più interessante è che queste strutture vengono realizzate con materiali del luogo e da mano d’opera locale. In tal modo si salvaguardia sia la cultura locale, sia il rapporto uomo ambiente, sia e ancor più si concede la possibilità agli individui che hanno subito il disastro di avere un lavoro e quindi un reddito… Il tutto è anni luce lontano dalle 19 new towns di Aquila.
d) Satoh mi sembra abbia anche ben sottolineato come nella cultura giapponese il rapporto natura-città-uomo sia sempre molto presente e venga tenuto in alta considerazione da urbanisti e architetti. Anche questo elemento mi sembra assai distante dall’esperienza italiana e dovrebbe divenire una importante lezione.
2. Sono convinto che la definizione di città di  Sant’Agostino: “est enim civitas non quorumlibet animantium sed rationabilio multitudo, legis unius civitatis devicta” sia ancora di grande attualità. Una città – piccola o grande che sia – è un insieme di abitanti, che complessivamente esprimono una comunità globale. I loro bisogni-desideri  devono necessariamente tradursi nelle funzioni che a quello spazio urbano competono. Ciò farà sì che gli uomini si riconoscano in quello spazio, che in esso intreccino le loro relazioni, che in esso vivano, che in esso si confrontino e anche si scontrino. Una città è data sicuramente da strutture edilizie, da spazi aperti e chiusi, da tipi e forme che esprimono e incardinano funzioni, ma in primo luogo è data dalla sua comunità globale, con tutte le sue variazioni interne. Tutto ciò rende inevitabile che nel caso di una catastrofe (qualsiasi essa sia) per progettare l’intervento ci sia la necessità della compresenza di Stato enti locali e cittadini, ma anche di urbanisti, architetti, storici, antropologi, naturalisti, ecc. Sia che si possa ricostruire il centro abitato nello stesso luogo della catastrofe e con le stesse tipologie, sia – e anzi ancor più – se questa possibilità non esiste, lo sforzo collettivo deve essere connesso all’apporto multidisciplinare di specialisti e ancor più dalla partecipazione dei cittadini.
Siccome nei prossimi giorni penso di non incontrarti volevo in qualche modo essere di un minimo di apporto a una gran bella e interessante serata.
Alberto Grohmann