Il nostro amico e socio Carlo Buldrini, intervistato da Matteo Tacconi su “Europa” del 15 settembre 2012 afferrma:‘la linea del Dalai Lama ha fallito, serve altro’.
Ecco la sua intervista completa.

Damchoe aveva diciassette anni. Lobsang Kalnsag, monaco del monastero di Kirti, diciotto. Si sono autoimmolati lo scorso 27 agosto. Prima di loro, a partire dal 2009, altri cinquantuno tibetani si sono bruciati vivi. Monaci, monache e civili, come nel caso di Damchoe o in quello di Tamding Thar, che nel messaggio lasciato prima di darsi fuoco, il 15 giugno, ha formulato l’esplicita richiesta che ha accumunato tutti e cinquantatre i pawo, gli eroi in tibetano, che si sono dati fuoco. «Voglio che il Dalai Lama ritorni nella sua terra e che il Tibet venga governato dai tibetani», ha scritto l’uomo. 
Poco da dire: siamo di fronte a un chiaro fenomeno politico, con istanze precise e costanza nel tempo. Che però non tocca la sensibilità di noi occidentali, né rimbalza sui media. «Mentre, come ricordano gli stessi tibetani, è bastata l’autoimmolazione di una sola persona, Mohammed Bouazizi, a dare il via alla rivoluzione dei gelsomini in Tunisia», afferma Carlo Buldrini, che ha vissuto trent’anni in India, lavorando come giornalista e dirigendo fino al 2000 l’Istituto italiano di cultura di New Delhi. Il giornalista, tra l’altro, sarà ospite domani a un dibattito sul Tibet alla festa del Partito democratico di Bologna. È proprio Buldrini, profondo conoscitore dalla questione tibetana e autore di Lontano dal Tibet, edito da Lindau nel 2006, che ci illustra le cause di questa lunga sequenza di sacrifici e il contesto politico a cui essa si lega.
Che posizione ha assunto il Dalai Lama sulle autoimmolazioni?
In aprile, durante una conferenza stampa a Taiwan, è stato molto duro, descrivendole come il frutto della «totalitaria, cieca e irrealistica politica cinese in Tibet». A luglio ha fatto una parziale marcia indietro, riferendo al quotidiano The Hindu che è meglio che resti «neutrale», perché qualsiasi cosa dicesse «verrebbe strumentalizzata dai cinesi». Penso che il Dalai Lama stia cercando di non esporsi. Primo, perché con la devolution dell’agosto 2011 ha ormai rinunciato al potere politico, trasferendolo al kalon tripa (il primo ministro tibetano in esilio) al momento dell’elezione di quest’ultimo. Secondo, perché con la sua “via di mezzo”, lanciata nel 1987 con l’obiettivo di raggiungere una genuina autonomia per il Tibet rinunciando all’indipendenza, si è infilato in un cul-de-sac.
La “via di mezzo” è davvero esaurita?
Il Dalai Lama, intervistato dalla Bbc a maggio, ha chiarito che è stata un totale «fallimento» a causa dei cinesi, definiti in quell’occasione «stupidi, di orizzonti ristretti e autoritari». Pechino, i cui sessantadue anni di occupazione hanno portato a un milione e 200mila morti in Tibet, non è disponibile a concessioni. Tanto per capirci, per il capo del Partito comunista cinese a Lhasa, Zhang Qingli, il Dalai Lama è ancora oggi «una volpe con le vesti di un monaco» e «un diavolo con volto umano e cuore di bestia». Con queste basi il dialogo è impossibile. La riprova arriva dalle dimissioni, rassegnate lo scorso 3 giugno, di Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen. Erano i delegati del Dalai Lama per i colloqui con la Cina sull’autonomia del Tibet, che tra il 2002 e il 2010 hanno portato a nove incontri ufficiali, tutti infruttuosi. Dimettendosi, hanno spiegato che Pechino rifiuta totalmente il Memorandum sulla genuina autonomia del Tibet, documento che si rifà alla via di mezzo e che la Central Tibetan Administration, il governo in esilio, ha messo al centro della possibile trattativa.
Ma Lobsang Sangay, il kalon tripa, sposa ancora la causa autonomista. Perché?

Lo stesso Dalai Lama non l’ha sconfessata. Dichiararla fallita non significa che non si può insistere. Il problema è che in questo momento le scelta del kalon tripa di accordare priorità alla via di mezzo appare perdente. Lobsang Sangay sembra temporeggiare, in attesa che a ottobre si compia a Pechino il processo di transizione politica e che, con la nomina del successore di Hu Jintao alla presidenza, venga individuato il nuovo interlocutore (fino a poche settimane fa si pensava che sarebbe stato il vicepremier Xi Jinping, che però è scomparso dalle scene per una decina di giorni, per “riapparire” solo ieri con un comunicato sui media di stato). Una linea poco coraggiosa, che trasmette l’idea che il Tibet possa ottenere qualcosa solo grazie alla benevolenza cinese. Che non ci sarà. L’attuale ondata nazionalista scatenata dall’incidente diplomatico sulle isole Senkaku, controllate dal Giappone ma rivendicate da Pechino (che le chiama Uotsori), lascia presagire che la nuova dirigenza non varierà approccio.
Ci sono alternative alla via di mezzo?
La grande novità è la nascita, l’anno prossimo, del Tibetan National Congress, partito che agirà rifacendosi all’esperienza gandhiana dell’Indian National Congress. L’iniziativa ha tra i suoi promotori il Tibetan Youth Congress, l’organizzazione che sostiene con più vigore l’autodeterminazione e che ha dichiarato il 2013 “anno dell’indipendenza di Tibet”. La speranza è che la formazione di questa nuova forza risolva l’equivoco, avallato anche da alcuni intellettuali tibetani, che la nonviolenza è la via di mezzo e che l’indipendenza è sinonimo di violenza.
Può funzionare la battaglia nonviolenta?
È l’unica opzione. I tibetani, insorgendo in armi, verrebbero schiacciati. La lezione di Gandhi, poi, è sempre attuale. Spesso il Mahatma viene scambiato per un pacifista ascetico. La sua era invece una lotta radicale, fatta di scioperi, resistenza passiva, disobbedienza civile e boicottaggi. Il tutto affiancato dalla consapevolezza che non può esserci compromesso sulle cose fondamentali e con l’obiettivo finale e irrinunciabile dell’indipendenza. La cosa incoraggiante è che in Tibet è già in atto questa lotta. Nel Tibet orientale, incorporato nella province cinesi del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, ci sono frequenti proteste contro l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole ed è nato da poco il movimento del Lhakar Karpo (mercoledì bianco). Ogni mercoledì, giorno di nascita del Dalai Lama, i tibetani indossano gli abiti tradizionali, boicottano cibo e prodotti degli occupanti, si automultano se anche solo pronunciano, parlando tra di loro, una parola cinese. E poi c’è questo drammatico fenomeno delle autoimmolazioni. Ecco, tutto questo spiazza la Cina. La sua potenza militare è inutile, se le si contrappone la nonviolenza. Ma i tibetani hanno bisogno di una guida politica autorevole, che sappia indirizzare la nonviolenza verso un obiettivo chiaro.
In che misura le autoimmolazioni sono gesti nonviolenti?
Certo, è contraddittorio definire nonviolento il gesto del suicidio. Ma la cultura buddhista lo autorizza. In primo luogo l’autoimmolazione fa salvo il principio di non nuocere al nemico. In più i jataka, le storie delle vite precedenti del Buddha, una delle fonti letterarie di questa fede, dicono che è lecito sacrificare la propria vita in nome di un bene superiore. L’esempio è quello del racconto in cui il bodhisattwa, colui che diverrà il Buddha, si getta in un dirupo per placare la fame di una tigre che, altrimenti, sbranerebbe i propri cuccioli.
Perché il Tibet non fa notizia?
Al di là delle ragioni dettate dai rapporti economici con la Cina, l’Occidente commette l’errore di inquadrare la questione tibetana in termini di rispetto dei diritti umani. Ci si limita a invocare il dialogo tra tibetani e cinesi, chiedendo ai secondi di non violare tali diritti. È quello che probabilmente verrà ripetuto anche dalle autorità italiane quando a ottobre – questa è una notizia ormai ufficiale – il kalon tripa effettuerà una visita in Italia, recandosi a Roma e Torino. 
Il vero punto, comunque, non sono i diritti umani, ma la sopravvivenza dei tibetani come popolo. La Cina, con l’aggressione demografica nel Tibet storico (ci sono ormai dieci milioni di cinesi han a fronte di sei milioni di tibetani), l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole, le sterilizzazioni delle donne tibetane e altri esempi ancora di discriminazione, porta avanti un’operazione di assimilazione che solo l’indipendenza tibetana può fermare.
Ma i tibetani possono farcela da soli?
Insieme alla nonviolenza devono manifestarsi fattori esterni. Serve sicuramente la pressione occidentale, finora mancata. Eppure la vera “spinta” deve giungere dalla Cina, attraverso l’aprirsi di crepe in quello che è un regime totalitario. L’esempio è quello dell’impero britannico, il cui declino, accelerato dalla seconda guerra mondiale, permise all’India di ottenere la libertà. Non è detto che la storia non si ripeta. La Cina vive migliaia di contraddizioni: divario tra città e campagne, forbice tra ricchi e poveri che s’allarga, proteste contro il partito e la burocrazia corrotta, bisogno di informazione. Le crepe potrebbero allargarsi.